Dai ricordi del fotografo Augusto De Luca.
“Quel giorno avevo un appuntamento con un mito, un’icona della musica italiana.
Le canzoni di Renato Carosone facevano parte della mia storia; avevano accompagnato e rallegrato la mia infanzia, la mia adolescenza, fino a diventare in età adulta indelebili mantra che canticchiavo inconsapevolmente mentre ero indaffarato tra una faccenda e un’altra.
Ricordo che mentre mi recavo a casa sua, a Roma in un quartiere nei pressi di Corso Francia, mi sembrava di andare da un conoscente, da un amico, da un un parente: uno che conoscevo da molto tempo. Con la televisione Carosone era entrato tante di quelle volte in casa mia che ormai mi era familiare. Era una di quelle persone che inevitabilmente avevo imparato ad amare, proprio come il grande Totò.
Mi venne ad aprire e mi fece subito accomodare in un grande salone dove campeggiava un bellissimo pianoforte nero, a coda lunga: una vera meraviglia.
Poi per rompere il ghiaccio sorridendo con un’espressione di sfottò mi disse:
“Tu ti chiami Augusto…ma sei romano?”
Ed io risposi stando al suo gioco:
“No maestro, non ho rapporti di parentela con Cesare. Sono napoletano verace”
Allora lui sorridendo mi diede una pacca sulla spalla e citando le parole di una sua famosissima canzone replicò:
“Sient’ a mme, nun ce sta niente ‘a fa’
Ok, napulitan”
Ci sedemmo, mi offri l’immancabile caffè e cominciò a raccontarmi del suo inizio, degli anni passati a suonare in Africa, delle sue frequentazioni nella Galleria Umberto I di Napoli, luogo di incontro di tanti artisti. Disse che le cose importanti, quelle che contano, sono la semplicità e la modestia e che il pubblico si accorge dalla luce degli occhi se un artista é modesto.
Poi si mise al piano e cominciò a suonare. Carosone stava suonando per me. Io avevo tra le mani la fotocamera ma l’abbassai e cominciai ad ascoltarlo come in trance, mentre lui con un sorriso indelebile stampato sul viso, mi guardava fisso negli occhi.
Dopo qualche brano mi portò in una stanza adiacente piena di quadri. Erano tutti suoi lavori pittorici: di matrice cubista. Fui molto sorpreso perché non conoscevo questo suo lato creativo e perché non erano opere dilettantesche ma di una fattura, di una bellezza e raffinatezza rara.
Lui me le mostrò una alla volta, raccontandomi con grande passione ed entusiasmo la loro storia.
Quella mattina avevo vissuto talmente tante emozioni che sinceramente fu una delle poche volte che gli scatti realizzati passarono in secondo piano.
In macchina mentre tornavo a casa, pensai che era proprio vero: Carosone aveva una luce negli occhi che esprimeva modestia…era quella la sua grandezza”.