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Partimmo così per Torino ed una volta arrivati fummo ospitati per un giorno dai miei zii. Dovete sapere che questi zii fino alla maturità, hanno rappresentato per me qualcosa di più che semplici parenti. Sono i figli dei miei nonni e fratelli e sorelle di mia madre.  In tutto 4 femmine e 1 maschio ognuno dei quali nel corso della sua vita ha fatto famiglia e si è, come suggeriscono le sacre scritture, moltiplicato sulla terra, consentendomi di aggiungere alla parentela una moltitudine di cugini. Tra questi io ero il più grande. Il nucleo storico però era ristretto alla cerchia semi massonica che includeva me, mia sorella e i primogeniti di tutti gli zii con uno scarto di età rispetto alla mia, variabile tra i 3 e i 6 anni. Lo stesso gruppo che quando si rincontrava l’estate, durante il rito della salsa, compiuto ogni anno agli arenili del nonno sacrificando decine di casse di pomodoro da poco strappato alla pianta, non mancava di esibirsi in cruente battaglie i cui dardi erano pomodori disfatti. A volte, per il disappunto degli zii, il succoso ortaggio veniva sostituito da maleodoranti cipolle marce, che meno duttili dei primi, quando ti colpivano ti lasciavano a ricordo un bel livido. Ricorrente era poi la costruzione di buche profonde riempite dagli scarti mucillaginosi della lavorazione della salsa, a cui veniva appoggiato uno leggero cartone poi ricoperto di sabbia in modo che il malcapitato, sovente con una scusante appositamente accompagnato in prossimità della trappola, potesse caderci dentro macchiandosi fin dove riusciva a sprofondare e permettendo al resto del gruppo, che prima o poi comunque avrebbe subito lo stesso destino, di esplodere in una fragorosa risata.

Ora questi zii, come tutti gli altri lavoratori al nord e nell’unico caso del maschio, al profondo sud, dove diciottenne fu assegnato una volta diventato guardia di finanza, come già detto ad agosto tornavano con mariti, mogli e figli a trovare i genitori, cioè i nonni con cui io e mia sorella all’epoca vivevamo. Cercavano, per quanto potevano, di alternarsi in modo da non ingombrare la casa, ma spesso capitava che due se non tre famiglie si accavallassero. Un anno accadde l’impensabile: si presentarono tutti nello stesso periodo. Ricordo solo che la notte, a causa delle brandine montate e sparpagliate in casa alla meno peggio per permettere a tutti di dormire su un materasso,  risultava quasi impossibile spostarsi da una stanza all’altra. E questo nonostante casa dei nonni avesse sempre avuto molti posti letto; ma ospitare contemporaneamente 18 tra adulti, ragazzi e bambini, era un’eventualità fino a quel momento non ancora prevista. Le  estati della mia adolescenza, anche per questo, possono essere annoverate come uno dei periodi più belli della mia vita. Pranzare o cenare al tavolo lungo degli adulti dove, mi spettava un posto di diritto, essendo tra i cugini non solo il residente ma anche il più grande, mentre gli altri si dovevano accontentare di un tavolino più piccolo, montato poco distante, era una grande gioia celata. Amavo ascoltare le storie della loro gioventù o di quella dei nonni; gli aneddoti, i pettegolezzi e tant’altro. Mi piaceva osservare i gesti che compivano mentre, mangiando, discutevano. Mi piaceva guardarli alla fine del convivio:  chi beveva un caffè, chi un Amaro, chi fumava una sigaretta, chi tutti e tre contemporaneamente! Piccoli gesti e vizi che trasmettevano in me una sensazione di sicurezza, di calore e di grande serenità! Non avevo una famiglia. Seppur per poche settimane, tra nonni, genitori e zii, ne avevo sei!

Arrivati a Torino appena ci fu possibile prendemmo l’ autobus che portava direttamente a Piamprato generosamente concesso, solo una volta a settimana, dall’amministrazione dei trasporti piemontesi. Piamprato, a 60 Km dalla Savoiarda, è un piccolo borgo di montagna, del comune di Val Prato Valsoana. Calato in una valle ai piedi del Parco Nazionale del Gran Paradiso si trova a circa 1500 mt di altitudine, con una popolazione che nei periodi invernali difficilmente supera le 25 anime. La cosa aveva senso, perché nei mesi freddi non erano rare temperature più basse di quelle che nella norma raggiungevano i – 15° C. Superata la primavera però, era un paradiso in terra, o comunque gli ci si avvicinava molto. La natura, d’inverno timidissima e accollacciata, in estate perdeva il suo riserbo e mostrava, avvenente ed entusiasta come una giovane ai primi amori, il suo splendido corpo colorato. Verde di ogni tonalità e sfumatura e fiori dalle specie più svariate spuntavano in ogni dove tanto che le case in pietra del borgo, come allegre anziane solevano riccamente adornarsene.

Nonostante queste meraviglie, il paese e la sua valle erano semisconosciuti. Sì, qua e là a qualche centinaio di metri dal manipolo di case che rappresentavano il suo centro, si potevano scorgere belle e lussuose baite, mi avevano spiegato, proprietà di ricchi milanesi che tempo prima ne avevano scoperto le qualità, ma a ragion veduta non poteva definirsi un centro turistico di massa. D’estate e nei fine settimana il massimo di presenze auspicabile viaggiava sulle 200, 250 unità; a quanto ne so io, a quei tempi, raramente di più.

L’abitazione che ci ospitò era una simil baita, vecchia e a parer d’occhio non molto ben mantenuta. Noi eravamo al primo piano dove c’erano diverse stanze, alcune piccole altre meno, con mobili e letti spartani, ma accoglienti quel che basta, mentre il piano terra era adibito a bar negozio e gestito dalla proprietaria di tutto lo stabile. Devo dire che, conoscendo i miei amici, non mi ero promulgato molto sulle qualità dell’alloggio. Insomma Salvatore e Antonio si potevano definire, al contrario di me, due ragazzi di buona famiglia, se vogliamo anche un po’ schizzinosi, e se avessero conosciuto le condizioni del posto e soprattutto l’orrendo segreto che ben mi ero tenuto dal rivelare, probabilmente non sarei riuscito a farli venire. Le camere infatti non avevano bagno. L’unico presente era situato al fondo del corridoio che collegava tutte le stanze. A dir la verità chiamare bagno quel loculo oscuro di circa un metro quadrato, provvisto solo di un piccolo pertugio senza vetri, senza acqua corrente, tanto che se si voleva scaricare bisognava andare a riempirne un secchio, nella fontana del cortile interno della casa, era una generosità che il tugurio non meritava.

I miei sospetti non erano infondati, perché, che ci crediate o no, nel corso dei giorni che rimanemmo a Piamprato, mai, ripeto e ribadisco mai, vidi andare i due in bagno. Non so quale meccanismo gastro meccanico avessero messo in atto per riuscire a non defecare per  una intera settimana, sta di fatto che una volta presa visione dell’orrida latrina, non misero mai più piede lì dentro. L’autobus però passava solo una volta a settimana e noi, non ancora patentati, si era sprovvisti di mezzi di trasporto, perciò che gli fosse piaciuto o no i due ormai erano prigionieri del luogo, e proprio su questo contavo.

Oltre all’impatto con la casa anche quello con la padrona di casa non fu dei migliori. Era insomma gente di montagna, chiusa per definizione, poco abituata al dialogo e diffidente per natura. Probabilmente futura entusiasta  leghista della prima ora, penso che fosse per lei uno sforzo già notevole aver dovuto affittare la casa a individui per lo più di origine meridionale. Sapere poi che questi invitavano a piacimento altri meridionali, di cui non aveva mai visto le facce, doveva risultare oltremodo offensivo. L’unico che conoscesse l’ostessa, il figlio e pochi altri abitanti del luogo ero io, visto che a Piamprato c’ero già stato più volte con gli zii. Ma le facce di Antonio e Salvatore erano sconosciute, pertanto, conscio del pericolo, mi premunii di presentarli appena possibile credendo che l’imprinting potesse volgersi al meglio. Invece, nonostante nessuno dei due parlasse lingue le cui radici potevano lontanamente essere ricondotte a qualche idioma arabeggiante, come probabilmente la donna credeva di tutti i gerghi da Ferrara in giù, perché seppur capendolo non si era avvezzi al dialetto pugliese, l’impatto non fu dei migliori.

Non ricordo precisamente cosa avvenne, certo fu che la signora iniziò con alcune antipatiche battute sui meridionali, a malapena sopportate dai due miei amici. Stesso cliché per i clienti del locale che cominciarono a menarla sui difetti dei meridionali. Io, in un impeto d’orgoglio, non trovai di meglio che estrarre la carta d’identità e far vedere alla sarcastica padrona e ai padani circostanti che fossi nato a Torino e che potessi ritenermi a tutti gli effetti settentrionale quanto loro. Nello stesso momento credo di aver sentito, almeno nella mia mente, un gallo cantare tre volte. In pratica, un capolavoro di bassa vigliaccheria e alto tradimento, che a distanza di tanti anni ancora mi viene giustamente rinfacciato. Grazie al cielo non fummo costretti se non per un altro paio di volte a trapassare la soglia del bar, una delle quali fu per riapprovvigionarci di pane, che la padrona soleva far prendere al figlio al paese civile più vicino, Ronco Canavese. Una megalopoli, al confronto di Piamprato, con i suoi oltre 300 abitanti situata pochi chilometri in basso. Si era, infatti, rimasti solo con del pane duro e alcune fette biscottate portate da chissà chi, in uno slancio di raffinatezza che mal si accostava alla spartana vacanza. In tutta risposta miss Simpatia ci disse che potevamo fare come il figlio e scendere a piedi a Ronco e lì comprarlo nell’unica panetteria. Ora a parte il fatto che il figlio ci andava a Ronco ma in motocicletta, in effetti noi si poteva anche fare una scampagnata di un oretta percorrendo in tutta tranquillità il tragitto, di soli 5-6 chilometri, che separava i due paesini, per poi infine andare a comprarci il pane da soli. Il problema non era l’andata, in discesa, ma la salita del ritorno, poiché tra Ronco e Piamprato ci sono circa 600 metri di dislivello. E poi la strada era concepita per gli automezzi e viste le numerose curve cieche poteva anche risultare pericolosa se fatta a piedi. Ma miss Padania con una delle sue brillanti battute anti meridionaliste obiettò che la strada poteva essere percorsa tranquillamene e che le curve non erano affatto pericolose perché dietro di esse non c’erano mica i mafiosi con la lupara ad aspettarci. La signora si aggiudica il primo posto per la battuta dell’anno e guadagna il diritto di partecipare alle finalissime nazionali di “La Sai L’ultima?”, ironizzavo nella mia mente. Sta di fatto che per una questione di principio alla fine ci rifiutammo di andare a comprarci il pane accontentandoci di rosicchiare, negli ultimi giorni di permanenza, pane raffermo e fette biscottate.

Superato il momento difficile, prendemmo possesso delle stanze e alla meno peggio sistemammo i nostri pochi bagagli. Piamprato era bella, piena di verde e circondata da magnifiche montagne, però una volta mirato il bucolico paesaggio, magari fatta qualche escursione in giro per la valle, intravisto qualche raro animale autoctono, parlato col pastore di vacche e la notte, a causa del magnifico cielo stellato, perché sprovvista d’illuminazione artificiale, filosofeggiato sulla grandezza dell’universo, non rimaneva poi tanto da fare. Insomma dopo tre o quattro giorni dall’arrivo ci si annoiava potentemente e a nostro soccorso non poteva nemmeno venire il magico quanto malefico elettrodomestico quadrato, perché nessun funzionario RAI aveva pensato di piazzare un ripetitore nella zona e circondata com’era da alte montagne, il segnale televisivo non poteva essere captato da nessun antenna per quanto alta.  Così il tempo passava lento e più passava più ci si annoiava. Fino a quando non accadde l’ineluttabile. Ebbi la grandiosa quanto funesta idea di andare a fare un’escursione per vedere un lago visitato coi parenti qualche tempo prima. E qui accadde il fatto mirabolante di cui sono stato testimone e che da il titolo al racconto. Ma andiamo per ordine.

Il laghetto montano, che non si può fare a meno di visitare una volta giunti a Piamprato, ha nome Santanel. Facilmente raggiungibile a patto che si segua il giusto sentiero, è uno specchio d’acqua non troppo grande, posto a 2360 metri e rotti di altitudine. Ora non giurerei che il lago in cui infine arrivammo fosse proprio quello, perché a un certo punto sbagliando strada, considerando che relativamente poco distante ne sono presenti diversi, tenendo conto del tempo che ci impiegammo, è probabile che avessimo cambiato meta. Riguardando le mappe del luogo, non lo giurerei, ma credo che alla fine raggiungemmo il lago Reale, molto più distante e alla sinistra dal primo.

Dato che non ricordavo affatto dove iniziare il tragitto per partire, a malincuore dovemmo chiedere alla padrona del bar che, bontà sua, ci spiegò che bisognava percorrere una stradina lì vicina, situata tra le case del borgo, per poi intraprendere un sentiero che ci avrebbe portati dopo due o tre ore di salita, secondo l’andamento della marcia, al lago. Occorreva perciò alzarsi presto la mattina perché affrontare il percorso nelle ore calde, come poi scoprimmo, non era consigliabile. Ringraziammo e stavamo andando via quando, dopo essersi fermata un attimo, come per raccogliere le idee, arguì che bisognava stare attenti perché dopo un’ora, un’ora e mezza di cammino, avremmo visto il nostro sentiero, all’altezza di una qualche struttura per l’alpeggio, diramarsi in due direzioni. Noi avremmo dovuto prendere la destra altrimenti il percorso ci avrebbe portato fuori strada, mentre la corretta direzione sarebbe fluita senza ulteriori deviazioni, diritta alla meta. Ovviamente, come se una stregoneria avesse cancellato dalla nostra mente l’avviso dalla matrona, prendemmo la  rotta sbagliata per ritrovarci a seguire il nulla, dato che man mano che si saliva quel che una volta poteva definirsi un sentiero diventava sempre meno chiaro fino a scomparire dopo solo poche centinaia di metri più avanti, definitivamente spalmato con l’ambiente circostante. Comunque ancora non sapevamo quello che sarebbe accaduto per cui ci organizzammo e preparammo gli zaini riempiendoli col poco vettovagliamento rimasto. Andammo a dormire prima del solito e ci alzammo la mattina presto in modo che verso le 8:00 eravamo già pronti ad incamminarci per l’agognata avventura.

Affrontammo la prima salita senza difficoltà, seguendo fiduciosi il percorso che inizialmente si diramava tra alberi e piccoli massi.  Devo dire che i miei amici non erano propriamente degli atleti. Magrolini entrambi, Antonio più di Salvatore, aggredivano la salita non senza fatica. Non che io fossi più prestante, ma anni di partite a calcetto, oltre ad un menisco rotto, avevano forgiato un fisico che comunque allora si poteva definire niente male. Salvatore lo conobbi a quattordici anni perché amico comune di un compagno di scuola. Garbato e intelligente, mi prese subito col suo fare educato e sincero. E poi aveva un Commodore SX-64 che era la versione del famoso computer da casa, all’epoca un must per ogni adolescente in, con integrati un monitor da 5 pollici e un lettore floppy disk da  170KB. Il tutto incorporato in una sorta di valigetta che in quegli anni doveva costare una piccola fortuna. Mitiche le nostre partite a Flight Simulation, credo unica copia originale esistente in Puglia, e probabilmente in tutta Italia, con tanto di istruzioni e mappe di volo, di cui Salvatore era fortunato possessore.

Il nostro carattere è sempre stato all’opposto. Lui posato, poco o per niente dedito allo sport, soleva pensarci bene prima di prendere ogni decisione. Io esuberante, frenetico, poco propenso alla riflessione ero il tipico ragazzo che si buttava a capofitto sulle cose senza pensarci due volte.

Tato, il diminutivo locale del suo nome, è sempre stato molto intelligente e non raramente, anche a causa dei nostri caratteri testardi, ci accapigliavamo su chi aveva ragione su questo o quell’ argomento. Ma non c’era battaglia perché, nonostante non lo ammettessi mai, il più delle volte vinceva lui. Conosceva bene l’inglese, le basi della programmazione informatica e frequentava il liceo scientifico del paese. Naturalmente andava benissimo a scuola. Io invece avevo scelto l’Istituto Tecnico Informatico, all’epoca sperimentale, che però aveva la sfortuna, tutta mia, di trovarsi distante una trentina di chilometri, in quel di Cerignola. Cittadina pugliese conosciuta ai più per essere la patria del grande sindacalista Giuseppe di Vittorio, ma a noi della zona per essere ricettacolo di formidabili ladri d’automobili e criminalità varia, che guardavano a Margherita, soprattutto d’estate, come un feudo di proprietà in cui poter espletare le loro malefatte. Credevo lì di poter studiare informatica mentre una delle materia a cui veniva data vera importanza era la matematica. Mia personale bestia nera, rovinò gli ultimi due anni di scuola abbassandomi drasticamente la media, a causa dei voti ricevuti nei compiti e nelle interrogazioni, dai quali un paio di volte ero riuscito a ricavare numeri addirittura negativi.

(fine seconda parte)

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