Sembra un paradosso consigliare a qualcuno di trascorrere un paio d’ore in un carcere, eppure chi fa questa esperienza ne esce di certo arricchito. Il pregiudizio più grosso che appartiene al mondo “fuori” è quello di considerare il mondo recluso composto semplicemente da un insieme di persone che stanno in carcere perché hanno sbagliato e devono pagare.
Carcere riabilitativo o afflittivo
Partendo dal principio di base che il nostro ordinamento giuridico non prevede alcuna detenzione di tipo afflittivo, ma unicamente riabilitativo, nessuno di queste persone che esprimono tali frettolose considerazioni si sono fermate un istante a chiedersi come il detenuto sia arrivato al reato. Quando una persona comune commette un reato, spesso le è mancata intorno una rete sociale che la supportasse e le desse una chance di speranza. Quando, invece, a commettere un reato è un recidivo, il più delle volte siamo dinanzi ad un vissuto deprivato sia dal punto di vista familiare che sociale. Anche in questo caso è mancata la chance della speranza.
Insomma “la colpa” del condannato è la colpa di un’intera comunità. In capo a tale catena c’è di sicuro il reo, ma legati a doppia mandata c’è anche tutto il “sistema” sociale che non ha funzionato, partendo dall’evento e andando a ritroso nel tempo.
Le madri in carcere – Il tempo dell’espiazione della pena, cristallizzato nell’attesa della libertà.
In carcere le persone che attivano maggiormente il mio patimento sono le madri. Non ho incontrato madre che non soffra pene amare pensando ai figli fuori da quelle mura. Il tempo dell’espiazione della pena, cristallizzato nella nostalgia del passato e proiettato nell’attesa della libertà, nella maggior parte di loro è speso nella volontà di riabilitarsi, imparare un mestiere, tessere relazioni, per uscire da quei cancelli come persone migliori. Alcuni luoghi di reclusione, come quello di Pozzuoli, sono realtà dove nascono legami forti che rappresentano il sostegno reciproco della sofferenza patita nel quotidiano. Il tempo trascorre lento: nascono le confidenze private ed i racconti di eventi tristi e drammatici che, in maniera inesorabile, hanno portato alla detenzione.
Il ruolo di Dio e della Chiesa
Molte detenute si affidano a Dio e pregano affinché il proprio tempo futuro sia un’esperienza tutta nuova e diversa rispetto alla vita passata ed affinché Egli possa donare loro la forza e la motivazione per percorrere la sua strada ancora colma di ostacoli.
Durante la celebrazione della Messa domenicale, talvolta mi capita di ascoltare letture di donne colte che proclamano la parola di Dio “sentendo” il significato di quanto leggono. E soffermandomi su quelle corrette intonazioni finisco per “sentire” anche io. Quante incomprensioni appesantiscono l’anima. Crediamo di conoscere e comprendere tutte le logiche terrene; il perché delle cose; esprimiamo giudizi istintivi ed emettiamo condanne definitive, senza lasciare spazio alle ipotesi di errore o di cattiva valutazione dei fatti. Tutto ciò che appesantisce il cuore, rende turbata la nostra vita. Pretendiamo di conoscere “le verità” altrui, e non siamo in grado di scrutare neanche un angolo di noi stessi.
Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli
Ho incontrato in carcere Giulia: dopo la Messa si é avvicinata a me e mi ha detto di essere una psicologa. Se ci penso, in fondo, dovevo aspettarmelo che l’intonazione data alla lettura avesse uno scopo ben preciso. Ma solo per chi è in grado di cogliere, ascoltare, calarsi in un’ascetica e critica riflessione sul proprio agire. Come ho fatto io e come fanno pochi. Superbia, intolleranza, orecchio sordo. Ecco i peccati dilaganti impalpabili, non codificati ed apparentemente innocui. Condannano e danno sofferenza alle persone che vivono intorno a chi li esercita. La preghiera più sentita di oggi per me è che tutto ciò lasci spazio al perdono. Vivere perdonando è l’unico elemento di pace per se stessi.