Carlo Alfano, classe 1932, è stato un punto di riferimento importante del panorama culturale partenopeo, che ci ha lasciato purtroppo il 25 ottobre del 1990. Pittore e scultore di rara intensità, ha fatto della ricerca concettuale il perno di tutta la sua produzione artistica, lavorando di base a Napoli, per poi trovare rinnovato slancio all’estero, soprattutto in Germania, dove era solito soggiornare a lungo.
Come artista non è mai appartenuto ad un movimento specifico, pur sperimentando di continuo, anzi, forse la sua vera forza è stata proprio quella di giungere sempre a nuovi approdi, ponendosi profondi interrogativi sul significato dell’esistenza umana, che ha riportato, artisticamente, come indagine del Sé. A ben guardare, ognuna delle sue opere travalica la mera intenzione artistica, che va a sfociare in una serie infinita di interessi che toccano vari ambiti, tra cui la musica, la filosofia e l’antropologia, che, in qualche modo, riesce a riprodurre anche, se solo accennate, nei suoi capolavori: immagini pittoriche e scultoree vedono la compresenza di leggerezze coloristiche e concrezioni materiche di matrice informale, ambiguità segniche e spaziali in stretta connessione con il tempo, che per lui ha una connotazione particolare. Molti dei suoi lavori poi, in qualche modo, giocando su sapienti geometrie che tendono a stuzzicare la percezione e la soggettività dello spettatore, prevedono il suo coinvolgimento totale, in modo che divenga egli stesso parte attiva dell’opera e del suo flusso temporale. Lo conoscevo da tempo, perché era sempre presente alle mostre nella galleria di Amelio e di Rumma, dove ci incontravamo spessissimo, raccontandoci i nostri progetti più ambiziosi, le nostre intuizioni, i nostri sogni.
Carlo era una persona sempre sorridente, ma di poche parole. Erano, infatti, i suoi capolavori a parlare per lui. Quel giorno andai nel suo studio per ritrarlo e, quando entrai, fui colpito dalla bellezza e dall’eleganza dei suoi grandi dipinti, dove il nero era il colore dominante. Raramente compariva la figura umana e spesso le tele erano tagliate e poi ricomposte attraverso una fitta trama di fili a simboleggiare l’animo frastagliato dalle esperienze di vita e ricomposto dalla stessa necessità impellente di rinascita. Mi trovavo di fronte a delle opere sicuramente maestose e raffinatissime; una meraviglia ed un piacere per gli occhi. In particolare, una grande tela attrasse la mia attenzione. Posizionai la luce e una sedia avanti al quadro e lo feci sedere. Quel lavoro aveva una cucitura centrale che sembrava dividerla in due e io, nello scatto, inquadrai in modo che la figura nel lato sinistro entrasse in relazione con quella di Carlo, posizionato dall’altra parte, nel lato più scuro che gli faceva da sfondo. Poi volli realizzare un altro scatto, ispirandomi ai ritratti di profilo del 400 italiano, come quello famoso del duca Federico da Montefeltro, posto, questa volta, il suo profilo al centro delle due parti del quadro, che bilanciavano lo sfondo. Il risultato, originalissimo e di forte impatto visivo, si sposava a perfezione con la sua analisi sulla figura umana, ormai scissa e non più centrale, a dispetto della preesistente concezione classica sull’individuo. In pratica, era diventato egli stesso soggetto – oggetto dei suoi lavori, come si trattasse di un singolare autoritratto di una potenza espressiva dirompente. I ritratti gli piacquero moltissimo, tanto che mi chiese di regalargli le due foto con la mia firma ed io, con grande piacere e soddisfazione, dopo averle fatte incorniciare, gliele donai. Per entrambi, quel giorno rimase un momento prezioso da ricordare.
Augusto De Luca