di Vittorio Cristiano
Per prima cosa chiedo venia per le varie divagazioni che troverete in questo racconto. Sono ricordi che man mano che scrivo si accavallano, difficili da tenere a bada, scalpitano come cavalli imbizzarriti nei meandri della mente, chiedendo, seppur non invitati, di partecipare alla storia. Cercherò di domarli per quanto mi sarà possibile. Spero sarete anche indulgenti per la mia prolissità descrittiva. La ritengo comunque necessaria a comprendimento di chi ignora i tempi, i luoghi, le persone e i fatti; probabilmente ai più che leggeranno questo racconto. Invero la Natura con me fu parca quando distribuì il dono della sintesi!
Partiamo da un assunto. Tutto quello che leggerete in questa storia è vero! Verosimilmente alcuni frammenti della trama saranno esaltati e altri forse deformati; ma se accadrà, sarà dovuto solo ai capricci della memoria, ingannata dal tempo e modellata dalla malinconia che inesorabile l’accompagna e che tutto trasforma e spesso abbellisce. Perché i fatti che vi racconterò riguardano tre ragazzi di diciassette anni che da lì a poco avrebbero vissuto una di quelle avventure che è d’obbligo raccontare quando ci si rincontra quarantenni e disillusi, ognuno con le cicatrici, più o meno profonde, che la vita gli dona, ma ancora pieni di quel sentimento che permette di mantenere viva un’amicizia nel corso dei decenni.
Ebbene era l’estate del 1987, nelle radio spopolavano i Guns and Roses, Madonna e Michael Jackson. I dj di tendenza mettevano Prince, i Depeche Mode e i New Order, mentre i temerari, contro ogni logica commerciale per la gioia di un’esigua minoranza di eletti, i CCCP, cui fui segretamente iniziato un caldo pomeriggio d’Estate di qualche anno prima da un amico avanguardista. Sopra tutti, il grande Zucchero Fornaciari macinava record di ascolti e vendite. Erano da poco passati i tempi dei leggendari scontri tra i Duran Duran e gli Spandau Ballet, e ancora si poteva assistere alle lotte tra paninari, adepti dei primi due gruppi, e metallari, sacerdoti dei Metallica e delle inaccostabili band hair Metal che all’epoca spopolavano a DJ Television. I dark, indifferenti alla lotta, come a tutto il resto, idolatravano i The Cure. Erano i tempi del nuovo boom economico italiano, che di lì a pochi anni subirà un drastico ridimensionamento; erano insomma i tempi della nostra sfolgorante gioventù!
L’estate scorreva, ed era prossimo l’arrivo di Agosto e con esso la fatidica festa del Santissimo! Ora dovete sapere che i nostri tre eroi, in ordine alfabetico, Antonio, Salvatore ed io, Vittoriano (molti di voi avranno notato che in calce mi sono firmato Vittorio ma il mio nome di battesimo è Vittoriano, scelto da mia madre perché santo del giorno della mia nascita e irrispettosamente cambiato con quello che più gli s’accostava, da un distratto impiegato dell’anagrafe, almeno così narra la leggenda parentale, forse infastidito dalla cacofonia dell’accostamento tra il cognome e il nome originale. Ma questa è un’altra storia e verrà un giorno in cui sarà raccontata) I tre, dicevo, abitavano in quel di Margherita di Savoia. Un paesino pugliese allora appartenente alla provincia di Foggia, situato esattamente al confine con quella di Bari, sulle coste dell’Adriatico. Conosciuto a molti per la presenza delle saline marine più grandi d’Europa, o almeno così gli autoctoni ne vantavano l’estensione, per le Terme e per la sua lunga e bella spiaggia sabbiosa la quale non mancava di affollarsi, soprattutto nei fine settimana estivi, di una quantità talmente esagerata di turisti, che se visti dall’alto parevano un chilometrico e ininterrotto brulicante tappeto multicolore confinante il mare. Gli stessi che ogni anno la raggiungevano da luoghi più o meno distanti, a cui venivano a sommarsi quei paesani residenti al nord per lavoro che, puntuali come gli uccelli migratori, tornavano per le vacanze, moltiplicati da consorti e prole varia, a visitare i parenti che avevano avuto la fortuna di rimanere al paese natio.
Come ogni cittadina che si rispetti, anche Margherita di Savoia onorava la festa del santo patrono con festeggiamenti di ogni genere. E per il nostro paese questo era nientemeno che Gesù Cristo in persona, o come comunemente veniva da tutti chiamato, il Santissimo, appunto. O meglio il suo ritratto; raffigurato su una tela di fine ‘500, le cui origini sono avvolte nel mistero. I sapienti tuttavia narrano che un lontano giorno, fu avvistata agonizzante sul bagnasciuga, lambita dalle onde che tentavano di riappropriarsene, e salvata da chissà chi, probabile residuo di un naufragio d’epoca.
Durante questa ricorrenza il paese, come tutt’oggi avviene, si trasformava. Ai festeggiamenti religiosi che culminavano con l’immancabile processione, si associavano, degni dei misteri dionisiaci di antica memoria, quelli più prosaici. Si montavano sulla strada principale, che diventava pedonale, alti archi di legno, e su di essi luminarie sfarzose e in men che non si dica, ai bordi opposti, miriadi di venditori di ogni genere di merce si accalcavano per appropriarsi della posizione loro assegnata. Un lunghissimo e luminoso mercato che si affollava fino all’inverosimile e nel quale era impossibile non trovare ciò di cui non si aveva bisogno!
Uno spazio, sempre alla periferia del paese, era attrezzato per le giostre che a decine l’occupavano , il quale aveva come principale via d’accesso una strada costellata da venditori di panini geograficamente a noi improponibili e cibarie d’asporto dai condimenti più vari. E come se non bastasse al culmine della festività, un concerto di qualche artista popolare, almeno in proporzione alla possibilità che il suo cachet potesse essere saldato dall’assessorato al turismo, allietava la folla con le sue melodie. Infine, nell’ultimo giorno, intorno alla mezzanotte, gli immancabili fuochi d’artificio; ripetuta meraviglia visiva per i turisti e maledizione uditiva, sempre rispettosamente sopportata, per contadini e tutti coloro i quali, la mattina seguente, erano costretti ad alzarsi presto per lavorare.
Per farla breve una bolgia di colori, rumori, umori, traffico umano e di automezzi della durata variabile dai 4 ai 7 giorni. La materializzazione terrena dell’inferno per gli eremiti e il terrore più profondo di ogni spirito sereno.
Si era all’Ancora e si discuteva sulla possibilità, per quell’anno, di saltare il ricorrente maelstrom, magari trascorrendo una vacanza fuori da Margherita per una settimana. Giusto il tempo necessario affinché l’orda infernale che di lì a poco avrebbe invaso ogni strada, potesse ritornare, satolla di divertimento, ai luoghi originari. L’Ancora è una delle piazze principali del paese, eletta a punto d’incontro della gioventù margheritana. Situata, verso il mare, quasi al centro geografico dell’urbe, confina a est con la veterana pensione Margherita, a nord con l’albergo 4 stelle delle Terme, a sud con la mitica pizzeria Bella Napoli e a ovest con il vecchio palazzo comunale,. Essa funge da spartiacque tra i lati opposti del lungomare pedonale, tagliandolo in due tronconi, che ininterrotti costeggiano la cittadina. In realtà il suo nome non era mai stato quello. La piazza, di cui, certo di non essere il solo, ancora oggi non ricordo il vero appellativo, era stata così battezzata perché al suo centro, illuminati urbanisti, avevano depositato un parallelepipedo marmoreo alto poco meno di due metri, su cui poggiava sbilenca ma, anche se non lo pareva, salda, una grossa ancora, a perenne ricordo dei marinai paesani caduti in guerra. Oggi il parallelepipedo non esiste più e il ferroso artefatto è stato appoggiato, poco distante dall’originaria ubicazione, al muro del vecchio comune, ormai trasformato in scuola alberghiera, sulla cui sommità una fredda lapide ricorda i nomi degli eroi estinti. A vederla, l’ancora, pare però non aver gradito il trasloco. Il suo profilo corrucciato, a volte malinconico, sembra ricordare i tempi felici nei quali era circondata e, non raramente, anche scalata e caldamente abbracciata dalla bella gioventù che intorno le si accalcava per meglio assistere all’evento mondano del momento.
Insomma qualcuno di noi, non ricordo chi, era stato felicemente illuminato dalla straordinaria idea di evitare il Santissimo. Fui io, però, a darne effettiva possibilità di compimento suggerendo di andare a Torino e da lì in una località di montagna ai margini del Monte Rosa, ultimo avamposto di civiltà, non troppo distante dai confini del Gran Paradiso: Piamprato! A essere obiettivi proprio di civiltà non si poteva parlare, visto che l’unico accenno di modernità era dato dalla presenza di elettricità e acqua, non sempre, corrente. Tutto il resto, presente nella casa in cui alloggiammo, poteva svolgere funzioni similmente fruibili almeno 100 anni prima.
Suggerii quel posto perché era stato eletto luogo di villeggiatura per i fine settimana dai miei zii, residenti a Torino da decenni, che insieme al altri parenti e amici avevano affittato un intero primo piano di quello che, a non essere troppo puntigliosi , poteva sommariamente essere ricondotto ad una grossa baita di montagna.
Con Torino avevo una certa familiarità. In primo luogo perché lì sono nato (tornai poi a quasi 30 anni in cerca di lavoro e attualmente vicino, in quel di Rivoli, risiedo da oltre 12 anni) per un errore di percorso di mia madre che insieme alle sorelle, a metà degli anni ’60, come tanti meridionali rincorrendo il futuro, si trasferì. E poi perché, nonostante a 5 anni, sempre a causa di errori materni, andai con mia sorella a vivere dai nonni a Margherita di Savoia in provincia di Foggia, almeno due volte all’anno tornavo a Torino a visitare gli zii e vari altri parenti.
La cosa in verità mi ha sempre lasciato un po’ perplesso perché come ogni buon osservatore anche voi, credo, avrete notato quanto la città di Torino ed il nome di Margherita di Savoia siano se non proprio interscambiabili di molto associabili. Cosa ci fa, direte voi, una cittadina col nome della prima regina d’Italia, in Puglia? A quanto ricordo mi fu narrato, la storia del nome, è questa: All’epoca, verso la fine del secolo diciannovesimo, il paese portava il nome di “le salinelle di Barletta” e solo nel 1879 fu battezzato con quello attuale.
Sia ben chiaro, la storia di Margherita è antica quasi quanto il sale stesso, certamente quanto le sue saline. Anche se non precisamente nell’area geografica odierna uno dei primi insediamenti, la famosa Salapia, è riportato nella Tabula Peutingeriana, copia del XII-XIII secolo di un’antichissima mappa romana probabilmente risalente al III secolo a.C. Nome e posizione che mutarono poi nei secoli in Salpia, Salpi (come tuttora viene chiamato il lago costiero ricavato dalla bonifica dell’antica laguna) e a seconda delle dominazioni, dei capricci del tempo e delle derivanti trasformazioni morfologiche, in vari altri nomi e siti più o meno simili e vicini. Sta di fatto che nella seconda metà del 1800 il nome del paese, combaciante con l’attuale posizione geografica, era “Le Salinelle di Barletta”.
Un epiteto che sapeva evidentemente un po’ troppo di sudditanza alla città della disfida distante pochi chilometri e che sicuramente stava troppo stretto ai margheritani. Insomma a quei tempi la cittadina aveva già il suo bel nucleo formato da contadini, pescatori e appunto salinari, nome che poi nel gergo provinciale avrebbe indicato, come accade tuttora, gli stessi abitanti del luogo. Si cercava così una via per l’indipendenza e, alcuni narrano, si pensò bene di dedicare il paese alla regina Margherita, da poco diventata prima regina del regno d’Italia. Altri più romanticamente, raccontano di un viaggio della stessa nel 1879, che, girando l’Italia per promuoversi come simbolo dell’appena nata unità nazionale, la portò seppur brevemente, da quelle parti; tanto che si decise, per grande onore concesso, di appellarne il paese. In realtà le cronache narrano che il viaggio per l’Italia del Sud la regina Margherita di Savoia lo fece davvero, ma pare non ci siano sicure testimonianze sul fatto che un giorno, i suoi delicati e nobili piedi, calpestarono la nostra agra terra salata. Che sia andata in un modo o in un altro, certo è che l’escamotage fu la scusante perfetta per sancire la definitiva indipendenza dal decurionato barlettano.
Il destino, ho sempre pensato, ha un suo peculiare senso dell’umorismo; tra il nome della città in cui ero nato, quello della cittadina in cui ero per di più vissuto e infine il mio anagrafico, identico a quello del primo re d’Italia, zio e poi suocero della regina Margherita, aveva tessuto una sorta di gioco di similitudini e assonanze, che, forse non solo, coglievo nella sua divertente e singolare casualità!
(fine prima parte)
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